Due termini simili. Legge e Giustizia. Proviamo a definirli. Cos’è la Legge? Cos’è la Giustizia? Partiamo dalla definizione che dei due termini dà il vocabolario Treccani, a cui solitamente mi rivolgo quando sono mossa da dubbi sul significato dei termini della lingua italiana. Legge viene definita come “Norma di condotta etica, sociale o giuridica”. Giustizia è invece “Il riconoscimento e il rispetto dei diritti altrui, sia come consapevolezza sia come prassi dell’uomo singolo e delle istituzioni”. Per me che ho studiato il greco al liceo, forse, riuscire ad individuare la differenza tra i due termini appare più semplice rispetto a chi non si è nutrito di studi umanistici. Diciamo che la Giustizia è un concetto che dovrebbe essere insito in quello di norma giuridica (o Legge) eppure nella storia non sempre è stato così. Partiamo da molto lontano, ma soltanto per individuare due diversi modi di concepire l’osservanza della Legge. Vi sono due figure che vengono solitamente contrapposte per spiegare il rapporto dell’Uomo con la Legge. Una è quella di Socrate (realmente esistito) e l’altra quella di Antigone (personaggio protagonista di una tragedia greca che viene attribuita a Sofocle). Socrate era un filosofo greco, che visse ad Atene intorno al 470 a.C. e che venne condannato a morte con l’accusa di corrompere i giovani della sua città introducendo il culto di nuovi Dei tra loro. Socrate non ha lasciato nulla di scritto. Delle modalità in cui rispose alle accuse che gli vennero mosse abbiamo un’idea attraverso i discorsi che gli fa pronunciare Platone nell’Apologia. Socrate non si piegò al costume dell’epoca di invocare la clemenza dei giudici, né accettò di mettere in atto il progetto di fuga che il suo discepolo Critone gli proponeva. Egli, al contrario, pur non ritenendola giusta, si sottopose alla condanna inflittagli perché era la Legge a disporla. Legge che, proprio in quanto tale, per lui andava rispettata. “Vada come sta a cuore al Dio” dichiara nell’Apologia di Platone. “Alla legge si obbedisce”. Antigone no. Antigone sfida la Legge, ritenendola ingiusta, e sceglie di morire in nome di una legge superiore a quella degli Uomini. La Legge di Dio. Ma chi è Antigone? Nella mitologia greca la giovane Antigone sfida il supremo potere del tiranno e sacrifica la sua vita pur di assicurare al corpo del fratello Polinice la sepoltura che il re di Tebe non vuole concedergli per motivi politici. Il suo gesto coraggioso e le nobili motivazioni che lo ispirano hanno fatto di lei un simbolo dell’emancipazione femminile e della libertà di coscienza contro ogni sopraffazione esterna. Figlia di Edipo e Giocasta, Antigone compare nel mito come colei che premurosamente accompagna il padre cieco in esilio, quando questi viene espulso da Tebe, e con lui giunge a Colono, dove Edipo muore. Ma la sua fama è legata soprattutto agli eventi successivi alla conclusione della tragica vicenda dei suoi fratelli, Eteocle e Polinice. Infatti, dopo che su Tebe aveva regnato Edipo, Eteocle e Polinice si accordano per dividersi a turno il trono, ma Eteocle non rispetta i patti. Polinice, scacciato, chiede aiuto al re di Argo e muove guerra alla città natale con un esercito al cui comando sono sette valenti eroi: è la spedizione nota nel mito come dei “sette contro Tebe”. Eteocle e Polinice muoiono, però, l’uno per mano dell’altro; gli assalitori vengono respinti e il potere è assunto da Creonte, fratello di Giocasta. È a questo punto che ha inizio la tragedia di Sofocle e il mito di Antigone si compie. Considerando Polinice un traditore, Creonte ordina con un editto (la Legge) che il suo cadavere rimanga insepolto. Ma Antigone, mossa dall’affetto di sorella e appellandosi alle leggi divine che impongono pietà per i morti, disobbedisce al decreto del nuovo re. Dopo aver inutilmente tentato di coinvolgere nell’azione la timorosa sorella Ismene, esce di notte fuori le mura, si reca sul luogo ove è stato portato il cadavere di Polinice e gli dà una simbolica sepoltura cospargendolo di polvere. Sorpresa dalle guardie di Creonte, viene portata alla presenza del re, dinanzi al quale rivendica con fierezza la legittimità del suo gesto: ella ha sì violato l’editto del sovrano, ma ha inteso obbedire alle leggi degli dei: leggi “non scritte, inalterabili, fisse, che non da ieri, non da oggi esistono, ma eterne” e perciò di gran lunga superiori alle leggi dei mortali. Creonte, adirato ma incapace di replicare alle argomentazioni della fanciulla, ordina che sia rinchiusa in una grotta fuori città. Invano suo figlio Emone, fidanzato di Antigone, cerca di intercedere per lei: egli è sordo anche alle sue preghiere. Solo quando Tebe è colpita da una serie di eventi infausti e l’indovino Tiresia spiega che essi sono dovuti alla collera degli dei, il re concede infine che a Polinice siano resi gli onori funebri. Vorrebbe anche liberare Antigone, ma è troppo tardi: la fanciulla si è tolta la vita impiccandosi; lo stesso Emone, alla vista della fanciulla morta, si suicida; e anche Euridice, la moglie di Creonte, quando apprende che ha perso suo figlio, pone fine ai suoi giorni. A Creonte, solo e disperato, non resta che vivere nel dolore.
Antigone e Socrate sono quindi due personaggi antitetici in quanto Socrate accetta di sottoporsi ad una condanna ingiusta perché è la Legge a disporla ed ai comandi della Legge non ci si oppone. Antigone ritiene ingiusta la Legge di Creonte (l’editto, appunto, che infligge la morte a chi concede sepoltura ai traditori) e non l’accetta, pagando con la propria vita il prezzo di questa presunta ingiustizia. E’ lecito allora chiedersi: le Leggi sono sempre giuste? Un tempo, quando si pensava che il sovrano incarnasse il potere divino, si riteneva che egli fosse legibus solutus, sciolto dalle leggi, al di sopra di esse. Erano i tempi delle monarchie assolute. Del Re Sole: “lo Stato sono Io”. Poi, quando a partire dal secolo XVIII, si impose il concetto di sovranità popolare e le leggi vennero emanate da un Parlamento legittimamente eletto, si affermò l’idea che esse, per questo motivo, non potevano che essere giuste. Ma poi, nel corso dei secoli, ci sono stati periodi in cui è stato veramente arduo ritenere che le leggi fossero giuste. Pensiamo all’epoca dei Totalitarismi.
Può davvero ritenersi giusta una legge che vieta a una bambina di sei anni di andare a scuola perché ebrea? Le leggi di Norimberga tedesche, le leggi razziali italiane. Espressione di un potere legislativo distorto che mal si concilia con il concetto di Giustizia intesa come equità di giudizio, rispetto dei diritti.
Si è ritenuto, quindi, necessario, nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, individuare dei punti di riferimento che consentissero di ritenere giusta (o meno) una Legge indipendentemente dal soggetto che la emanasse (dubitando quindi della sua autorevolezza). Cominciarono, pertanto, ad essere codificati quei diritti che si riteneva appartenessero a tutti gli uomini sin dalla nascita ed indipendentemente dal sesso, dalla razza (sarebbe più giusto parlare di etnia), dalla religione e dalle condizioni economiche e sociali di ciascuno. A partire dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 e successivamente attraverso tutti gli atti formali che hanno riconosciuto formalmente quei Diritti di cui all’art. 2 della nostra Costituzione. Tempo fa mi colpì la storia degli undici cammelli che ascoltai da un autorevole professore sul canale Youtube. Cerco di riassumerla brevemente perché è significativo il messaggio che trasmette. Orbene, un cammelliere aveva tre figli e decise di fare testamento approssimandosi alla morte. Lasciò un mezzo del suo asse ereditario al primo figlio. Un quarto al secondo. Un sesto al terzo. Non chiedetemi il perché (e non siate eccessivamente pedanti nel calcolo aritmetico perché non vi trovereste!!) … avrà avuto le sue ragioni. Alla sua morte, venne aperto il testamento e si appurò che l’asse ereditario era composto da undici cammelli. Ora: undici non è divisibile per due, non è divisibile per quattro e non è divisibile per sei. Il primo fratello disse allora “a me ne toccano sei”. Gli altri due prontamente insorsero “non solo hai avuto la parte maggiore, vuoi anche prevaricare su di noi”. Dalle parole si passò ai fatti, dai fatti alle armi e si stavano uccidendo tra loro quando passò di lì un cammelliere che, visto quel che accadeva, decise di donare ai tre fratelli un proprio cammello. I cammelli divennero quindi dodici. Pertanto: dodici diviso due fa sei. Diviso quattro fa tre. Diviso sei fa due. Sei più tre più due fa undici e quindi … questa storia ci trasmette non uno, ma due messaggi:il primo è che donare è sempre positivo. Non ci si impoverisce mai ma anzi, il donare è sempre un arricchimento. Infatti, il cammelliere di passaggio, donando il proprio cammello, non solo non si è impoverito, perché ha riottenuto indietro il suo cammello, ma si è arricchito perché ha ricevuto la gratitudine dei fratelli, la riconoscenza per non essersi uccisi a vicenda ma aver ritrovato la concordia.
Il secondo messaggio è che la Legge fine a sé stessa non è sufficiente a garantire la pace. Essa (il testamento, in questo caso) può non essere sufficiente a dirimere le controversie nascenti. Occorre che tendi ad ottenere una Giustizia “benevolente”, che tenda al bene, alla pace, alla solidarietà. Altrimenti rischia di diventare “giustizialismo”, che è una giustizia fredda, rigida, applicata in modo pedante ma sommario (pensiamo ai Giacobini che tagliavano la testa ai tempi della Rivoluzione Francese ma anche a qualche altro movimento politico ben più recente!!). Le moderne Costituzioni prevedono poi l’istituzione di Corti chiamate a giudicare sulla “costituzionalità” delle leggi, ovvero sulla rispondenza delle stesse ai principi richiamati in esse ed al rispetto di quei Diritti Umani, assoluti, inalienabili ed imprescrittibili che costituiscono l’ossatura di tutte le moderne democrazie. Anche in Italia la Corte Costituzionale svolge questo ruolo, contemperando spesso interessi contrapposti e normando situazioni e casi non presi in considerazioni dalla Legge, secondo quel fine ultimo del “tendere al bene” di cui si parlava prima e plasmando l’applicazione della Legge alla evoluzione dei tempi, delle esigenze e dei costumi. Conclusione: la Legge va applicata quando vengono rispettati i Diritti dei popoli, quelli naturali, quelli umani, e quando è espressione della sovranità popolare. Ogni qualvolta ciò non si verifica, allora la disubbidienza civile non solo si giustifica ma si impone. E, come ben diceva Bertold Brecht “Quando l’ingiustizia diventa Legge, la resistenza diventa Dovere