Il boom economico che gli USA avevano sperimentato dall’inizio della prima guerra mondiale – rappresentato da una forte espansione del loro Prodotto Interno Lordo grazie alle numerose innovazioni tecnologiche (radio, telefono, energia elettrica, frigorifero), allo sviluppo dell’industria automobilistica e alla rapida crescita di settori come quello petrolifero – aveva costituito il motore dell’aumento del prezzo delle azioni delle tante società quotate in Borsa che operavano sul mercato statunitense. Nel periodo che va dal 1922 al 1929, oltre ad un aumento della produzione industriale del 64%, vi era stato un incremento massiccio del numero delle speculazioni in Borsa, anche grazie al senso di entusiasmo diffuso dei c.d. “Ruggenti Anni Venti”. Le cause del crollo di Wall Street (la più grande borsa valori del mondo) possono rivenirsi in due diversi fattori che potremo definire, per certi versi, uno storico ed uno economico.
Da un punto di vista storico, la contrazione dell’economia statunitense che si verifica a partire dai primi mesi del 1929 ha origini, in realtà, nella seconda parte degli anni Venti, quando si registra una diffusa, ancorché moderata, riduzione dei prezzi dei beni agricoli e, in parte, dei manufatti, dovuta al notevole incremento della produzione connessa all’uso intensivo delle moderne tecniche e dell’energia a basso costo. La sovrapproduzione agricola, prima, e quella industriale, poi, che si era venuta a generare, era anche frutto, peraltro, di una più ridotta capacità degli Stati europei d’importare beni e prodotti da oltre oceano per effetto delle conseguenze devastanti della prima guerra mondiale. C’è da dire, inoltre, che la risposta governativa a questo decremento della domanda di beni (prima agricoli e poi industriali) fu primariamente tesa a “difendere” gli stessi beni con una politica protezionistica di dazi. Cosa che determinò un ulteriore loro non appetibilità agli occhi dei consumatori stranieri.
Dal punto di vista più propriamente economico, invece, vanno considerate tre circostante estremamente incisive quali:
1. Una politica monetaria espansiva che rese disponibili a banche e individui una enorme massa di liquidità di cui essi si servirono per acquistare azioni e investire nella borsa valori;
2. La speculazione azionaria determinò anche nella c.d. “middle class” americana prospettive floride di crescita economica dagli irrealistici profitti;
3. La fiducia illimitata circa lo stato della economia americana produsse un’enorme “bolla” azionaria la cui dinamica è da rintracciare anche nella tecnica di acquisto dei titoli tramite i contratti di “riporto”, ossia di contratti conclusi dagli investitori privati con gli operatori di borsa (i c.d. agenti di cambio) in forza dei quali quest’ultimi fornivano in prestito ai propri clienti la liquidità necessaria agli acquisti di titoli azionari, ricevendo a garanzia della restituzione dei prestiti i titoli medesimi. Gli operatori di borsa, a loro volta, si finanziavano presso le banche portando a garanzia i titoli azionari consegnati loro dai propri clienti “a riporto”
Nel marzo del 1929, i segnali di un possibile crollo del mercato borsistico erano stati avvertiti dalla Riserva Federale la quale, purtuttavia, decise di non agire in virtù di quella convinzione, tipicamente liberista, secondo cui una “mano invisibile” avrebbe prima o poi riportato in equilibrio il mercato stesso. Invece, nel settembre dello stesso anno, l’indice di borsa iniziò a muoversi in modo irregolare con una tendenza al ribasso fino a quando, il 29 ottobre (c.d. «martedì nero») si assistette ad una brusca correzione del valore reale delle azioni con gli investitori che, presi dalla paura, iniziarono a venderle forsennatamente. La forte esposizione delle banche sul mercato azionario – per effetto dei crediti concessi agli operatori di borsa – indusse i risparmiatori, intimoriti dalle ripercussioni sui propri depositi, a richiederne il ritiro, dando luogo ad una vera e propria “corsa agli sportelli” (“bank run”). Per effetto di ciò, molti Istituti di Credito dichiararono la bancarotta e fallirono.
Gli effetti del “big crash” furono ad ogni modo devastanti:
1. Fallimento di numerose aziende
2. Incremento vertiginoso della disoccupazione (15 milioni di disoccupati, cioè oltre il 25% della popolazione attiva)
3. Contrazione del reddito e quindi diminuzione dei consumi e della produttività
4. In ultimo, le esigenze nazionali spinsero gli istituti finanziari degli Stati Uniti a richiamare i prestiti erogati all’estero (30 miliardi di dollari) estendendo gli effetti recessivi della crisi su scala mondiale
Per combattere la Grande Depressione che seguì il crollo di Wall Street, il Presidente americano Franklin Delano Roosvelt, eletto nel 1933, diede vita al c.d. «New Deal» (Nuovo Corso) che rappresenta il primo tentativo di realizzare uno stato sociale (Welfare State). Dopo aver rassicurato gli Americani («L’unica cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa!») Roosvelt fece approvare una serie di leggi che prevedevano un ampio intervento dello Stato in ogni sfera della vita sociale ed economica, applicando le teorie dell’economista inglese John Maynard Keynes. Nei primi 100 giorni del suo mandato il Presidente Roosvelt dispose:
1. Riordino del sistema bancario
2. Svalutazione del dollaro (che rese possibile il ricorso all’esportazione delle merci come sbocco per la sovrapproduzione)
3. Attuazione del programma di sostegno per gruppi sociali in difficoltà
4. Attuazione del programma di Lavori Pubblici con istituzione di Agenzie Governative («National Recovery Administration» – NRA) che assunsero milioni di disoccupati
5. Istituzione del «Social Security Act» (modello, appunto, di Welfare State)
La politica Keynesiana, in realtà, è in gran parte esposta nel libro «La Teoria generale dell’Occupazione, dell’Interesse e della Moneta», pubblicato nel 1936, in cui Keynes nega il principio di economia liberista secondo cui il mercato da solo sarebbe in grado di riportare la situazione di crisi alla piena occupazione. Per Keynes il PIL, e quindi la ricchezza di un Paese, dipende dalla domanda aggregata ovvero dalla domanda di beni e servizi in un dato sistema economico. Più specificamente e riducendo il tutto ad equazione, per Keynes
AD (Aggregate Demand) = Consumi + Investimenti + Spesa Pubblica + Esportazioni
Ne deriva che per aumentare la domanda aggregata occorre che aumentino una o più delle variabili suindicate. Per aumentare i Consumi, ad esempio, si potrebbero diminuire i prelievi fiscali. Per aumentare gli Investimenti andrebbero diminuiti i tassi d’interesse. Per aumentare le esportazioni occorrerebbe svalutata la moneta nazionale. Ma soprattutto occorrerà aumentare la Spesa Pubblica (costruzione ad opera dello Stato di strade, ferrovie, case, ospedali etc.) perché questo comporterà un aumento dell’occupazione, la quale comporterà un aumento del reddito, che comporterà un aumento dei consumi, che comporterà un aumento di produzione, che comporterà un aumento del PIL, in una spirale benefica nota come “Teoria del Moltiplicatore”. Spesso le politiche di spesa pubblica, quale appunto questa di ispirazione Keynesiana, sono state tacciate di aver alzato a dismisura il livello del debito pubblico (ovvero quello che lo Stato contrae nei confronti di attori esterni come famiglie, imprese, banche e soggetti stranieri attraverso l’emissione di titoli a breve, a medio e a lungo termine, come BOT, CCT e BTP) in quanto lo Stato, per finanziare la spesa, prende in prestito dai risparmiatori denaro che dovrà poi restituire maggiorato di cospicui interessi. Questo – che Keynes chiamava Deficit Spending – determina un aumento smisurato del debito pubblico ove naturalmente venga attuato in maniera inefficiente, se non addirittura criminale, come avvenuto in tanti paesi del mondo tra cui in Italia negli anni Ottanta.
Secondo il Patto di stabilità sottoscritto dai Paesi della Unione Europea nel 1997 il rapporto tra il debito pubblico e PIL non dovrebbe mai superare il 60%, in modo che le entrate fiscali siano in grado di finanziare la spesa pubblica e coprire il debito che lo Stato ha nei confronti di risparmiatori e possessori istituzionali (come le banche) di titoli pubblici. Ma in Italia il debito pubblico ha superato il 130% del PIL (in valore assoluto più di 2.500 miliardi di euro) e questo per un dissennato utilizzo della spesa pubblica che non è più in grado di essere finanziata da un debito che Keynes suggeriva di essere gradualmente ripagato una volta usciti dalla momentanea situazione di crisi economica.