La legge sui collaboratori di giustizia si è rivelata uno strumento fondamentale nella destrutturazione delle mafie. Lo aveva ben percepito Giovanni Falcone che ne è stato l’ideatore. Il magistrato palermitano aveva ben presente i costi sul piano della sofferenza per le vittime della mafia ma aveva anche chiaro quali danni avrebbero procurato alla stessa le collaborazioni di alcuni esponenti di vertice di Cosa nostra. Oggi in Italia ci si indigna per la scarcerazione di Giovanni Brusca, ex capomafia di San Giuseppe Jato, autore di oltre 100 omicidi, il quale ha scontato 25 anni di carcere ed ora torna in regime di semilibertà. Ci si indigna, in realtà, senza considerare che il DL n. 8/1991 – fortemente voluto da Giovanni Falcone – ha costituito uno degli strumenti principali utilizzati per il contrasto alle mafie. È vero, eticamente può sembrare vile che lo Stato scenda a patti con efferati criminali, concedendo loro “sconti” di pena a fronte di pur importanti rivelazioni, ma bisognerebbe partire dal diverso presupposto che quei patti potrebbero rivelarsi utili al fine di impedire ulteriori crimini e crudeltà, soprattutto nei confronti di vite innocenti. Tra l’altro, volendo far riferimento proprio a Brusca – che quanto a crimini efferati non e’ secondo a nessuno – c’è anche da dire che lascia il carcere dopo venticinque anni, che non sono proprio bruscolini. La libertà personale è un bene incommensurabile. Ne abbiamo avuto conferma quest’ultimo anno, trascorso per di più in casa e senza la possibilità di uscire per svolgere anche le più banali attività. E certo, ci sarà chi afferma che uno come Brusca “dovrebbe marcire in galera tutta la vita” o che, addirittura, meriti la fine che lui stesso ha procurato a tante vittime innocenti, primo fra tutti il piccolo Giuseppe Di Matteo. Sta di fatto che chi afferma ciò è lontano anni luce dai principi costituzionali della rieducazione della pena che trovano il loro fondamento in quelli illuministi di Cesare Beccaria. Il nostro ordinamento ripudia la pena di morte e all’art. 27 della Costituzione stabilisce che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. In questo caso, dopo venticinque anni di “buona condotta” in carcere, con che coraggio urliamo allo scandalo per l’applicazione di una legge che trae fondamento ed ispirazione nell’attività di un magistrato che ha pagato con la sua stessa vita la strenua difesa delle Istituzioni e dello Stato. Della Legalità. E siate cauti anche in affermazioni del genere: “se ti avessero ucciso un figlio, un padre o un marito la penseresti diversamente”; perché ho ascoltato in questi giorni molte testimonianze che provenivano da parenti delle vittime di mafia e non ho notato astio, cattiveria o sete di vendetta. Piuttosto, un sentimento che definirei di amarezza per qualcosa che c’era e non c’è più e che mai niente e nessuno potrà restituire … neanche il sapere che chi ha procurato quella mancanza giace in una cella per il resto della sua vita.