Salivamo sul gozzo quando il sole era ancora alto in cielo, pomeriggio inoltrato.
Indossavo il costume ma avevo nello zainetto un paio di jeans e una felpa. Anche un cappellino di lana blu per ripararmi dall’umidità che di lì a poco sarebbe calata.
Nel primo pomeriggio, sulla terrazza assolata del nostro appartamento, avevo aiutato mio padre a preparare le totarare con le alici salate, la “veletta” e il filo di cotone.
Solitamente andavamo insieme ad altri: mio fratello, mio zio, qualche vecchio amico di mio padre che condivideva la sua passione per la pesca. E ci dirigevamo verso Punta Campanella, là dove si diceva si trovassero numerosi banchi di pesci e dove la pesca dei totani avrebbe, quindi, potuto essere più soddisfacente e proficua.
Lo ricordo come fosse ieri. Gesti che si ripetevano con una cadenza naturale e che lasciavano una scia di sale ovunque.

La lampara veniva saldamente fissata sul bordo del gozzo e l’odore forte e penetrante dell’acetilene si spandeva intorno a noi. Il tempo di abituarsi a quel profumo acre che veniva poco a poco inghiottito dalla oscurità. Si andava avanti così, con gli sguardi persi tra le sfumature rosse, rosa, viola, gialle e arancioni del cielo ed il sole che, nel giro di pochi secondi, scompariva all’orizzonte. Nell’oscurità della notte, si avvertiva il rumore dei tuffi dei delfini che, a pochi metri dalla imbarcazione, giocavano evidentemente con la luce della lampara riflessa nell’acqua, donandomi quella sicurezza che si è soliti avere quando ci si sente scortati da sentinelle amiche in un territorio sconosciuto. Il gozzo era lento e, durante la traversata, ero solita mangiare il panino che mamma aveva preparato con un gusto e una voracità piuttosto inusuale per me a quell’epoca. Giunti a Punta Campanella, tra la Baia di Ieranto e l’isola di Capri, in una zona di mare in cui il fondale è piuttosto profondo, ci posizionavamo lungo lo scafo e cominciavamo a gettare in acqua le lenze. Iniziava l’avventura.

Il filo di nylon che srotolavo con estrema calma e cautela era lunghissimo. Poi, quando mi accorgevo di aver toccato il fondale con il fuso, lo tiravo di qualche metro e cominciava qualche secondo di attesa. Poi … su e giù, su e giù …. più e più volte. Tante, tantissime volte nel corso della notte, stando sempre ben attenta a non imbrogliare la matassa che si formava sistematicamente tra le gambe o sul pagliolo in legno del gozzo. Che gioia quando percepivi tra l’indice e il pollice che la lenza “tirava”; quel peso immediato della preda, che poi si faceva leggera, ed allora cominciavi, molto lentamente, a tirare quel filo fino a quando lo vedevi, luccicante e ambrato, salire verso la superficie del mare e poi, con un ultimo e cauto sforzo, venir fuori dall’acqua. Rosso, violaceo, brunito. E uno spruzzo d’acqua salata in faccia mi lasciava sgomenta ma mi procurava piacere e mi inorgogliva non poco. Io, piccola tra i grandi, ero riuscita nell’impresa.

Avevo preso il mio totano!!


Ecco, tutto questo mi torna in mente oggi, primo luglio, perchè con l’inizio della stagione estiva cominciavano ufficialmente le uscite notturne in barca, quelle alle quali qualche volta – e solo qualche volta – mi veniva concesso di prendere parte, perché erano “cose da maschi” ed io, a detta di mio padre, potevo apparire inopportuna in un equipaggio tutto maschile. Sta di fatto che di quelle poche volte che uscivo in barca di notte con mio padre e mio fratello conservo un ricordo meraviglioso e, se chiudo gli occhi, rivivo emozioni, sensazioni e stati d’animo – per di più caratterizzati da pace, serenità, curiosità, benessere, gioia – che solo poche esperienze nella vita mi hanno donato. E mi lascio trasportare, come quando si rientrava all’alba, in quella penombra silenziosa e fatata, stanchi ma soddisfatti, dormendo sul cuscino verde di prua, cullata dal movimento ondulatorio del gozzo e dal rombo del motore entrobordo che, nell’oscurità e nel silenzio, scandiva il ritmo cadenzato del rientro in “porto”.