Cutro è un comune italiano di circa novemila abitanti in provincia di Crotone. Probabilmente pochi lo conoscevano fino a qualche giorno fa quando è diventato il luogo simbolo di una delle più grandi tragedie avvenute nel Mar Mediterraneo. Un caicco salpato dalle coste della Turchia ha raggiunto l’Italia con a bordo circa centottanta migranti provenienti da paesi del Medio Oriente. Per di più, dall’Afghanistan e dalla Siria. Uomini, donne e, soprattutto, bambini che fuggivano dalla guerra e dalla povertà che sempre ne deriva. Diretti in Italia. Già, in Italia, e non nella più vicina Grecia. Anch’essa membro della Unione Europea. Anch’essa ai confini della Unione Europea. Anch’essa tra le più onerate dalle richieste d’asilo provenienti dai migranti ma, proprio per questo, tra I Paesi che applicano una dura politica di respingimenti che, da un lato, le ha procurato nel corso degli ultimi anni la condanna da parte comunità internazionale e, più specificamente, da parte della Corte Europea dei Diritti Umani, e dall’altro, non sembra produrre alcun frutto significativo, visto che nel 2022 le richieste di asilo sono state 279 ogni 100mila abitanti lì dove in Italia il dato si ferma a 133.
E fin qui – fermo restando le conclusioni politiche che ognuno vorrà trarne – la risposta alla domanda che più frequentemente si legge di recente sui social da parte di chi risulta fondamentalmente fedele a ideologie che condannano gli sbarchi in Italia e, in maniera molto più generica, l’intero fenomeno migratorio. Coloro i quali, per intenderci, molto sbrigativamente dichiarano “aiutiamoli a casa loro”, “siamo già in tanti”, “ci rubano il lavoro” e cose di questo genere.
Sulle cause del naufragio. Se ne possono ipotizzare più di una.
Sappiamo con certezza che la sera del 25 febbraio, l’Agenzia europea Frontex (fondata nel 2004 con compiti di assistenza ai Paesi dell’area Shengen nella protezione delle frontiere esterne) segnalava la presenza dell’imbarcazione dal nome beffardo di “Summer Love” a quaranta miglia nautiche (pari a circa 64 Km) dall’Italia, specificando che essa navigava “senza mostrare segni di pericolo” ma con a bordo diverse persone, come stabilito dalle telecamere termiche installate sul velivolo in perlustrazione sul Mar Ionio.
Sappiamo, anche, che dall’ora della segnalazione della imbarcazione (ore 23.00 circa del 25 febbraio) a quella del naufragio (ore 4.00 del 26 febbraio) sono trascorse circa sei ore senza che nessuno intervenisse.
Sappiamo, inoltre, che la Guardia di Finanza, destinataria della segnalazione di Frontex in quanto corpo operativo del Ministero dell’Interno, al quale spetta l’ordinaria attività di polizia in materia di immigrazione, ha mobilitato due sue motovedette che, uscite in mare quella sera stessa, sono rientrate velocemente in porto a causa delle avverse condizioni meteo-marine.
Sappiamo, infine, che la Guardia Costiera – a cui la segnalazione di Frontex era rivolta solo “per conoscenza” – corpo operativo del Ministero dei Trasporti, al quale spetta l’attività di salvataggio in mare, in assenza di un SOS e/o dell’attivazione della procedura SAR (Serch and Rescue), non è intervenuta.
Ciò che sappiamo con certezza è, invece, il numero dei morti ad oggi. Settanta. Ed un numero di dispersi stimato tra le 27 e le 47 persone tra cui molti bambini.
Ciò che resta da chiarire – sono in corso indagini dirette ad accertare eventuali responsabilità – è se ci siano stati errori ed omissioni nella catena dei soccorsi che avrebbero potuto evitare la catastrofe o quantomeno i danni che ne sono derivati. Anche alla luce degli interventi, quanto meno infelici, del Ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, e dei silenzi assordanti del Ministro dei Trasporti, Matteo Salvini.
Proviamo a capire.
Il salvataggio in mare è un obbligo marittimo antico quanto l’invenzione delle imbarcazioni. Non è negoziabile. Non si possono porre limiti al soccorso quando altri esseri umani sono in pericolo. Tutti i marittimi concordano e si inchinano a questa antica consuetudine marinara.
Con una Convenzione internazionale firmata ad Amburgo nel 1979 (conosciuta come Convenzione SAR – Serch and Rescue) si è tentato di dare corpo ad una forma di salvataggio in cui la cooperazione tra Stati firmatari costituisse lo strumento principe onde evitare disservizi ed inefficienze che possano determinare catastrofi in mare. Come quella di Cutro, appunto.
L’Italia ha ratificato la Convenzione SAR (L. n. 147/89), dotandosi di una struttura operativa che ha al suo vertice il Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto (RCC – Rescue Coordination Center). E che si dipana, poi, in Direzioni Marittime (RSC – Rescue Sub-Center) e Unità di Guardia Costiera (UGC) con interventi a seconda delle diverse tipologie di operazioni di salvataggio da effettuare. La zona SAR italiana ha una estensione pari a 495.553 Km2.

In caso di emergenza in mare, dunque, lo Stato responsabile della zona SAR deve coordinare le operazioni di soccorso con l’impiego della propria flotta, ma anche con unità civili e militari che si trovino in prossimità della imbarcazione in difficoltà. Solitamente, la Guardia Costiera interviene quando parte il dispositivo SAR. Di contro, la Guardia di Finanza, quando le segnalazioni riguardano ipotesi di possibili reati come casi sospetti di traffico di migranti o di contrabbando. Operazioni, queste ultime, che vengono gestite come operazioni di polizia, appunto, e non di soccorso; con mezzi militari che servono per pattugliare, non per salvare le persone, e quindi meno dotate ai fini dell’assistenza e del salvataggio.
Ecco, possiamo affermare che quello è accaduto a Cutro, dalle informazioni alle quali noi comuni mortali abbiamo accesso, appare abbastanza lampante. La posizione ufficiale di Frontex è che l’Agenzia ha fatto ciò che le spettava, e cioè segnalare la presenza della imbarcazione che navigava senza mostrare segni di pericolo ma con a bordo diverse persone. Secondo il portavoce ufficiale dell’Agenzia Frontex “la classificazione di un evento come “ricerca e soccorso” spetta alle autorità nazionali”. E, a quanto pare, le autorità nazionali hanno rubricato il caso della “Summer Love” a poche miglia dalle coste italiane come “operazione di polizia” piuttosto che come “operazione di salvataggio”, allertando conseguentemente la Guardia di Finanza piuttosto che la Guardia Costiera ed esponendosi, in questo modo, ad un fallimento sul campo (ndr “cronaca di una morte annunciata”) in considerazione delle diverse tipologie di unità navali e di competenze di cui dispongono rispettivamente i due corpi anzidetti.
Naturalmente, la Magistratura, chiamata in causa dalle proporzioni drammatiche del disastro in mare che si è consumato a pochi metri dalle coste italiane – che, è giusto evidenziarlo, sono coste europee – tenterà di dare delle risposte ai tanti interrogativi che ci si pone in casi come questi, in cui “perché partono” e “dove vanno” sono domande che hanno certamente una loro importanza, ma l’importanza principale ce l’ha soprattutto il fatto che la Vita è un diritto umano inalienabile, che va protetto e garantito a tutti gli esseri umani, indipendentemente da chi siano, da dove partano e dove siano diretti. Esseri Umani. Non soltanto numeri, benchè significativi, come quelli che vengono oggi collegati a Cutro.
La disperazione – ha detto infelicemente, per non dire indegnamente, il responsabile del Viminale – non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo le vita dei propri figli».
Preferisco la lirica della poetessa kenyota Warsan Shire: «nessuno mette i suoi figli su una barca a meno che l’acqua non sia più sicura della terra».