Qualche settimana fa ho donato una delle palme di confetti che quest’anno ho confezionato – peraltro dopo averla benedetta in Chiesa – a una amica buddista. L’ha accolta con gioia, sistemandola in primo piano nel soggiorno di casa. Mi è capitato, peraltro, qualche giorno fa di assistere alla preghiera che, insieme a una sua amica, ella rivolgeva al suo Dio. Non ho cercato distrazione e conforto nel cellulare che avevo in mano. Ho ascoltato loro, con interesse, lasciandomi cullare dal suono dolce e ritmato delle strofe della loro preghiera. La settimana scorsa, una insegnante sarda è stata sospesa dall’incarico per avere, durante un’ora di supplenza, fatto recitare agli alunni un classico della religione cattolica, l’Ave Maria. Gira da ieri sul web il video del Dalai Lama, leader indiscusso del buddismo tibetano, che invita un ragazzino a succhiargli la lingua; con inevitabile disgusto da parte di tutto il mondo occidentale. La religione è sempre fonte di discussione. In Italia ancora di più. Be’ certo … un paese che si professa laico da settant’anni ma la cui laicità non si evince neanche dalla Costituzione che, tra i Principi Fondamentali, annovera l’art. 7, completamente dedicato ai rapporti tra Stato e Chiesa cattolica, e l’art. 8, che menziona genericamente tutte le altre confessioni religiose “diverse dalla cattolica”. Ce ne sarebbe da dire. E invece. Invece, credo ci voglia fondamentalmente buon senso. Ragionevolezza. Certamente non condivido la recita dell’Ave Maria in classe. Se lo Stato è laico, la Scuola, che ne è diretta espressione, non può e non deve consentire che avvenga tra le aule ciò che è più consono ed opportuno avvenga in Chiesa o al catechismo. D’altro canto, mi rendo anche conto del fatto che, soprattutto nell’ambito delle generazioni più anziane – e la scuola italiana è ancora, ahimè, caratterizzata da esse – è difficile far passare il concetto che nessuna religione debba prevalere sulle altre e che se oggi viene fatta recitare agli studenti l’Ave Maria, domani toccherà ai versi del Corano o alle strofe dei Tripitaka. Quindi andrebbe tollerata la recita della preghiera cattolica ma soltanto potenziando lo studio delle altre confessioni religiose, per garantire quella uguaglianza, non soltanto formale, ma sostanziale di cui fa menzione il secondo comma dell’art. 3 della Costituzione. Non sono atea, né agnostica. Non sono buddista né islamica. Sono cattolica. Anche praticante. Ma sono soprattutto liberale, tollerante e laica. La storia ci insegna che non sempre le Religioni sono sinonimo di Etica e di Moralità. Spesso non lo sono neanche di Umanità. Allora, lasciamo che esse costituiscano per ognuno di noi fonte di benessere interiore, di speranza, di fede, di “senso” da attribuire alla Vita. Nel rispetto assoluto degli Altri, dell’Altro. Anche dello Stato. Che, se è laico … lasciamolo laico.