Si legge tutto d’un fiato “Comandante”, il libro scritto a quattro mani da Edoardo De Angelis e Sandro Veronesi.

Io almeno l’ho fatto, benché ci abbia messo un po’ all’inizio a calarmi nel contesto di riferimento a causa della alquanto anomala struttura del testo, suddiviso in singoli capitoli ciascuno dedicato alle riflessioni di alcuni membri dell’equipaggio delle imbarcazioni coinvolte nella storia.

Storia che Sandro Veronesi, in prefazione, riconduce ad episodi recenti ed, in particolare, ai naufràgi che nel 2018 si sono susseguiti nel Mediterraneo e che hanno portato lui stesso ed un nutrito gruppo di esponenti del mondo della cultura a prendere le distanze dalla politica dei “porti chiusi” praticata dal Governo leghista dell’epoca.

Fu proprio allora, infatti, che lui ed Edoardo De Angelis, colpiti dalle parole dell’Ammiraglio Pettorini in merito alla necessità di adoperarsi per il soccorso dei naufraghi, perché “salvare le vite in mare e’ un obbligo di legge e morale”, decisero di approfondire la storia del Comandante Todaro, a cui lo stesso Pettorini aveva fatto riferimento.

La storia ovviamente non la racconto. Non voglio “spoilerare” nulla, per lasciare l’ebrezza della scoperta a chi leggerà il libro o vedrà il film presentato in anteprima mondiale proprio in questi giorni alla Mostra del Cinema di Venezia. Con un grande Pierfrancesco Favino che interpreta il protagonista della vicenda storica riguardante il sommergibile “Cappellini” della Regia Marina.

Quello che mi preme condividere è, invece, il senso di fierezza che il libro mi ha lasciato. L’orgoglio di appartenere a quella Italia Unita dove “un livornese e un siciliano sono più che stranieri, sono proprio abitanti di due pianeti diversi e lontani, per lingua, cultura, temperamento”. Eppure i giovani sono tutti “brufoli, capelli sporchi, bocche carnose, vene in rilievo sulla fronte, risate, pelle tirata, tatuaggi, mani che non stanno mai al proprio posto. Attaccati alle pareti, santi, madonne, mogli, fidanzate e modelle di rivista, corni e ferri di cavallo”. Siciliani, livornesi, napoletani o veneti che siano.

Orgoglio, dicevo, di appartenere a un popolo che fino a qualche anno fa si è distinto per le sue doti di fratellanza, accoglienza e solidarietà. Perché per mare non ci sono vinti o vincitori ma solo naufraghi, corpi ancora caldi che il mare è in grado di assiderare in pochi istanti.

Non erano superstiti come li chiama l’ordine 154 di Donitz, erano naufraghi” scrive Todaro alla moglie. E li raccoglie dall’acqua gelida dell’Oceano, sfidando il mare, le condizioni di vita a bordo, il malumore del suo equipaggio, la frustrazione dei naufraghi stessi. Concludendo il suo discorso all’equipaggio con le parole pronunciate dall’Imperatore del Giappone Mutshuito all’inizio della guerra russo-giapponese del 1904: “ Che la vita continui normalmente. Che ognuno faccia quel che deve fare”.

Ordine chiaro e intransigente il suo. Dato con consapevolezza e senso di responsabilità. Mai messo in discussione da sè stesso ed, anzi, difeso strenuamente anche dinanzi ai dubbi ed alle titubanze mostrate da alcuni dei suoi uomini più cari. Decisione rispettata e condivisa, finanche, dal Comandante del convoglio inglese incrociato lungo la rotta verso il porto sicuro in cui sbarcare i naufraghi, perché “lui sta solo cercando di salvare quelle vite, cioè la cosa più entusiasmante che un uomo di mare possa fare”.

Salvatore Todaro incarna il “fratello” nel senso più nobile del termine, un’Antigone dal busto di ferro e dall’equilibrio di un monaco buddista, pronto a disattendere la legge positiva vigente (non è sempre “giusta”) in luogo di quella perpetua divina.

Perché: “Così si è sempre fatto, in mare, così sempre si farà. E coloro che non lo faranno saranno maledetti”.