Da qualche mese è online la piattaforma per la raccolta firme per i referendum (il DPCM 18 Luglio 2024 ne attesta l’operatività). Accedendo all’area privata con la propria identità digitale (SPID o CIE), cittadini e comitati promotori possono sia sostenere che gestire una o più proposte referendarie. La piattaforma, sviluppata dal Dipartimento per l’Innovazione Tecnologica della Giustizia, mira dunque a semplificare e rendere più accessibile la partecipazione dei cittadini ai processi democratici. Ma, prima di approfondire la tematica sul se e quanto sia opportuna una simile modalità di partecipazione dei cittadini alla vita politica di un Paese, riflettiamo sul significato che ha oggi il termine “democrazia” e sulle diverse modalità esplicative del potere che ne deriva.
La nascita della democrazia viene generalmente fatta risalire al periodo delle polis greche (siamo intorno al 450 a.C.), dove i cittadini ateniesi, nelle agorà, discutevano e votavano direttamente sulle tematiche di interesse per la loro città e, in questo modo, provvedevano direttamente alla gestione dei propri interessi, senza la mediazione di soggetti politici intermedi. Ciò che rende veramente interessante l’esperienza Ateniese è il fatto che tramite questo sistema si cercava di raggiungere una tendenziale unanimità, in modo tale che anche gli interessi delle minoranze fossero tutelati. Unanimità che, d’altronde, poteva tendenzialmente essere raggiunta a causa dell’esiguo numero di partecipanti alla vita politica cittadina (ricordiamo che nessuna rilevanza “civica” veniva attribuita alle donne, agli schiavi ed agli stranieri). Successivamente però, l’evoluzione della società, la complessità degli interessi e dei bisogni sociali e la pluralità dei soggetti concretamente chiamati a decidere hanno reso difficilmente impraticabili forme di democrazia diretta e preferibili quelle di democrazia rappresentativa, più adatte alle esigenze della società moderna (esistono ad ogni modo ancora oggi Stati in cui si pratica una sorta di democrazia diretta. In Svizzera, per esempio, i politici sono eletti per gestire il governo quotidiano della nazione e prendere molte decisioni per conto del popolo e tuttavia i cittadini mantengono un alto grado di potere democratico. Negli Stati Uniti, molti Stati mantengono una certa democrazia diretta. Nel New England, per esempio, i cosiddetti “municipi” sono assemblee dove i membri delle città locali si incontrano per decidere leggi e regolamenti locali attraverso processi democratici diretti deliberativi. E in molti paesi, come il Regno Unito e una dozzina di stati dell’UE, esistono ancora i referendum nazionali, dove i cittadini possono votare direttamente su una proposta legislativa, ad esempio per permettere l’aborto o per lasciare l’Unione Europea).L’art. 1 della Costituzione italiana recita espressamente: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nei limiti e nelle forme previste dalla Costituzione”. La nostra è per di più una democrazia indiretta o rappresentativa nel senso che vengono eletti dal popolo coloro i quali siedono in Parlamento e si occupano (o si dovrebbero occupare) di legiferare nell’esclusivo interesse del medesimo. Ma, in Italia vigono anche una serie di istituti di democrazia diretta, attraverso i quali i cittadini possono “direttamente” partecipare all’attività politica del Paese, condizionandone in qualche modo le scelte. Essi sono:

  • il diritto di petizione di cui all’art. 50, secondo cui “tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità”;
  • le leggi di iniziativa popolare di cui al secondo comma dell’art. 71, secondo cui “Il popolo esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli”;
  • il referendum, che può essere abrogativo (art. 75), confermativo (art. 138) o consultivo (art. 132).

Tralasciando i primi due istituti, in quanto molto farraginosi nell’utilizzo oltre che quasi del tutto desueti, merita in questa sede di essere menzionato più approfonditamente l’ultimo proprio per la trasformazione che sta riguardando la modalità della raccolta firme necessarie per la sua proposizione. L’utilizzo della tecnologia sembra, infatti, aprire le porte a nuove forme di democrazia diretta e ad un superamento, almeno in parte, dei suoi principali limiti, consentendo una riunione, se pur virtuale, di tutti i soggetti interessati ed una loro attiva partecipazione nelle decisioni. Con il termine “e-democracy”, o democrazia digitale, si fa riferimento all’utilizzo di strumenti digitali e tecnologici al fine di aumentare la partecipazione politica dei cittadini alle decisioni che li riguardano, con lo scopo ultimo di avvicinarsi il più possibile ai loro interessi e bisogni. Una tale finalità troverebbe, peraltro, un suo fondamento proprio nella Costituzione italiana, che, all’art. 118, comma 4, prevede il principio di sussidiarietà, secondo cui è necessario che le decisioni siano assunte dal livello più vicino ai diretti interessati. Tra l’altro, anche il Codice dell’Amministrazione digitale espressamente recita che lo Stato italiano deve favorire ogni forma di uso delle nuove tecnologie, al fine di “promuovere una maggiore partecipazione dei cittadini… al processo democratico e per facilitare l’esercizio dei diritti politici e civili sia individuali che collettivi”. La democrazia digitale presenta, però, dei punti di criticità. Tali sistemi, infatti, vengono ritenuti generalmente inadeguati per l’assunzione di decisioni complesse, per un triplice ordine di motivi:

  1. L’eccessivo allungamento dei tempi che comporterebbe il coinvolgimento di tutti i cittadini;
  2. Non tutti i cittadini dedicherebbero tempo e impegno, né d’altronde ne avrebbero la competenza, a redigere un testo legislativo non inerente ad un’area di loro interesse o di cui non abbiano conoscenze adeguate;
  3. Potrebbe costituire un rischio per l’efficienza e per l’adeguatezza dei provvedimenti legislativi che ne potrebbero derivare, proprio per l’incompetenza dei cittadini interessati alla procedura;
  4. La vulnerabilità dei sistemi informatici utilizzati, da cui potrebbe derivare una manipolazione dei voti, nonché una violazione del diritto di segretezza del voto, con conseguente ed evidente pericolo per la veridicità dei risultati ottenuti.

Sono rischi concreti, che vanno considerati anche nella ipotesi di una semplice raccolta firme per la presentazione di un referendum, benché in questo caso vadano evidenziati anche gli enormi vantaggi che questo tipo di procedura può procurare alla collettività (si pensi ai cittadini portatori di disabilità e agli anziani, desiderosi di essere ancora cittadini attivi ma con grandi difficoltà di movimento; a quelli  che si trovano lontano dalla propria residenza, i quali finalmente potranno esercitare la responsabilità di esprimersi attraverso una firma; alle difficoltà nel reperire i banchetti e nel posizionarli per strada e/o nelle piazze; ed infine, ai tempi a volte lunghi dei certificati di iscrizione alle liste elettorali dei firmatari che gli uffici anagrafe devono trasmettere al comitato promotore ed ai costi che tutto ciò comporta).

Che i cittadini abbiamo ben accolto questa nuova forma di partecipazione democratica è del resto evidente considerato che il referendum sulla cittadinanza, promosso da diverse realtà politiche, ha raggiunto le 500mila firme richieste in meno di venti giorni dall’apertura della piattaforma. Un successo probabilmente neanche tanto annunciato ma sicuramente dovuto alla semplicità ed alla velocità della procedura. Grazie alla piattaforma del Governo è stato possibile, infatti, autenticare tramite SPID e/o CIE la firma per sottoscrivere il quesito referendario (“Volete voi abrogare l’art. 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole “adottato da cittadino italiano” e “successivamente alla adozione”; nonché la lettera f), recante la seguente disposizione: “f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.”, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza”?”). Firma poi certificata in collegamento automatico con l’anagrafe nazionale dei residenti. Tempo per l’operazione: non più di due minuti. E così ora, il quesito che mira a modificare l’articolo 9 dell’attuale legge 91/1992 sulla cittadinanza – riducendo a cinque gli attuali dieci anni di residenza continuativa sul territorio dello Stato italiano per ottenere la cittadinanza – dovrà soltanto essere sottoposto al vaglio della Corte Costituzionale, che ne deve valutare l’ammissibilità. Il voto di noi cittadini probabilmente in Primavera.