Era il tardo pomeriggio di una classica domenica invernale, che la mia famiglia era solita trascorrere a casa del fratello maggiore di mio padre in un tripudio di cibo, chiacchiere e affetto profondo.
Eravamo rientrati a casa da pochi istanti e mia madre si era immediatamente recata nell’appartamento dell’anziana vicina di casa, al secondo piano, per accertarsi che lei e suo marito disabile non avessero bisogno di qualcosa prima di andare a letto. Lo faceva tutti i giorni ed io quella sera le ero corsa dietro, senza che nessuno se ne accorgesse.
Ricordo solo il buio improvviso – per prima cosa, andò via la corrente elettrica – e poi, dopo una frazione di secondo, la terra cominciò a tremare per un tempo, ai miei occhi di bambina di otto anni, inestimabile. L’istinto mi portò immediatamente ad abbracciare mia madre, che mi era accanto, ma in effetti non mi rendevo conto di cio’ che stava accadendo. Pensai subito ad una eruzione del Vesuvio. Nel mio immaginario era quello il preludio. Poi, dopo un lasso di tempo che mi parve infinito, la terra smise di tremare ed io e mia madre ci catapultammo giù per le scale verso il nostro appartamento. Trovammo mio padre e mio fratello sull’uscio di casa che chiamavano a squarciagola il mio nome. Non si erano accorti che avevo raggiunto mamma a casa della vicina e credevano fossi rimasta bloccata all’interno dell’appartamento ancora buio. Papà e mamma aiutarono gli anziani vicini a scendere le scale e ci recammo tutti verso il grande giardino incolto che si trovava dinanzi al nostro edificio condominiale, all’epoca di recentissima costruzione in una zona residenziale del paese, increduli e spaventati per cio’ che era accaduto. Molti padri di famiglia rientrarono dopo poco negli appartamenti dai quali si erano allontanati all’improvviso allo scopo di prelevare soprattutto coperte e generi alimentari, bottiglie d’acqua e scatole di biscotti, in modo da poter affrontare la notte nelle auto parcheggiate nei pressi del viale del palazzo. Noi anche trascorremmo diverse ore in auto. All’epoca non esistevano i cellulari e tutti ci auguravamo che nonni, parenti e amici, anche quelli che risiedevano nei Comuni limitrofi, si fossero tratti in salvo come noi. Non so come fosse possibile, evidentemente per una sorta di “tam tam” naturale, le informazioni arrivavano, nonostante non avessimo a disposizione telefoni e cellulari. Ed erano notizie sconfortanti: crolli, feriti, morti addirittura, in alcune zone del paese. Era tutto molto drammatico ma, devo ammetterlo, ai miei occhi di bambina, anche molto eccitante. Trascorremmo tutta la serata e gran parte della notte in auto, poi mio padre decise che potevamo rientrare in casa. E lo facemmo. Io mi addormentai ma seppi, l’indomani mattina, che i miei genitori erano rimasti svegli tutta la notte, atterriti dalle numerose scosse di assestamento che si erano susseguite e pronti, dunque, ad eventuali nuove fughe improvvise ove si fossero rese necessarie. Le scosse di assestamento continuarono nei giorni seguenti, durante i quali io trovavo meraviglioso il fatto di non andare a scuola; di condividere il nostro piccolo appartamento con tutto il nucleo familiare degli zii che nel frattempo si erano stabiliti da noi; di giocare e chiacchierare a lungo con gli amici del condominio, di intrattenermi con i compagni di scuola che, vivendo in abitazioni che erano crollate e/o che erano state dichiarate inagibili dall’amministrazione comunale, erano stati costretti a trasferirsi in strutture alberghiere locali requisite ai privati e destinate ad ospitarli per un tempo indefinito.
Li invidiavo, finanche!
Perché mi raccontavano dei giochi meravigliosi che facevano negli ampi saloni di quelle strutture, ed in particolare di quello, divertentissimo ai miei occhi di bambina vivacissima qual’ero, di scivolare impavidi – oggi direi in maniera incosciente – sui corrimano delle ringhiere delle scale che collegavano i numerosi piani degli alberghi.
Non sapevo nulla degli immensi interessi in gioco che ruotavano intorno a quella eccezionale vicenda storica. Delle misure d’urgenza poste immediatamente in atto dal Governo di allora.
Non ero al corrente dei finanziamenti post terremoto (soldi a palate!) che svanivano miseramente nelle mani di amministratori pubblici disonesti e di imprese e tecnici truffaldini.
Non mi interessavano gli aspetti economici, politici e sociali della vicenda. Io non comprendevo la drammaticità dell’evento. Soltanto la sua eccezionalità.
Guardavo insieme ai miei genitori le immagini scioccanti che si susseguivano sulle reti delle TV nazionali: morti, feriti, dispersi, edifici crollati, famiglie distrutte in tutto o in parte. Povertà. Ascoltavo le testimonianze di coloro che avevano perso tutto: parenti, amici, abitazioni, effetti personali.
Si parlava di “sciacallaggio”. Cos’era? Non capivo.
Poi mi fu spiegato.
E provai una immensa vergogna.
Di enormi cifre stanziate dallo Stato per la ricostruzione.
Numeri. Tanti numeri.
Soltanto numeri.
Avevo otto anni.
Per me era semplicemente uno stato di fatto nuovo: particolare, eccitante, fuori dall’ordinario ma tutto sommato rassicurante e, se vogliamo, ovattato: avevo tutto cio’ che avevo prima, non avevo perso nulla. Io.
Io c’ero. E c’erano anche mio padre, mia madre, mio fratello. C’erano tutti i miei familiari ed i miei amici. La mia casa. La mia scuola. Il mio mondo.
Posso dirlo, senza ombra di dubbio.
E nonostante la mia vita non sia stata un’autostrada ma piuttosto un percorso ad ostacoli su una strada sterrata e costellata di buche e di dossi. Il terremoto che colpi’ l’Irpinia e l’intera regione Campania nel novembre del 1980 è stato l’evento empirico piu’ “forte”, potente e traumatico che io abbia vissuto. Sicuramente indelebile agli occhi della bambina che ero e della donna che sono.