Mi accorgo come nelle relazioni, di qualsiasi genere, tendo a preferire la nitidezza delle forme e dei colori alle ibride e tenui sfumature che spesso lasciano spazio a movimenti e “pennellate” non richieste che vanno inevitabilmente a incidere sui contenuti del rapporto. Ripercorrendo la mia vita, rivedo la Francesca bambina che disegna, (con ottimi risultati, peraltro!) e che si dedica alle attività creative che le vengono sottoposte e che svolge sempre con una cura e una passione non indifferente. Ricordo in particolare un gioco che ricevetti un anno per Natale. Dovevo avere circa dieci anni – forse anche qualcuno in più – insomma un’età in cui si gioca ancora, ma il gioco acquista il sapore della competizione con sé, per mettersi alla prova e sperimentare le proprie abilità. Si trattava di creare candele. Nella scatola del gioco c’erano le forme in plastica, gli stoppini, gli strumenti per realizzare le incisioni ed i ritagli, il pentolino, i colori e, infine, la cera. Ricordo che trascorrevo ore – quelle pomeridiane che residuavano dopo aver svolto i compiti e frequentato le lezioni di pianoforte e di danza classica a giorni alterni – a realizzare le mie amate candele. Di ogni forma e colore. Ma mai, mai, e dico mai – e lo ricordo perfettamente – ne realizzavo utilizzando i colori in modo tale da determinarne sfumature indefinite che potessero comportare anche un minimo dubbio circa la loro classificazione netta in quelle “rosse”, “verdi”, “gialle”, “blu” etc. Certo, nell’ambito di ciascuna categoria di colore esistevano le gradazioni – come è ovvio che fosse, dipendendo dalla quantità di colore che utilizzavo in proporzione alla cera – ma questo non comportava, per esempio, che una candela venisse fuori rossa ma tendente al rosa. Perché le mie candele erano rosse oppure rosa (e spesso rosa fucsia, perché i colori tenui non mi sono mai piaciuti!) Ancora oggi, da adulta, non amo le sfumature, l’impalpabile leggerezza dei colori, la discreta esibizione delle tonalità neutre (il beige, per esempio!), la timidezza nella delimitazione dei bordi, dei confini. A un quadro dipinto con la tecnica dell’acquarello preferisco quello ad olio, per la brillantezza dei colori e la profondità della tinta. A una relazione ibrida, non definita, dai contorni sfumati e tali da poter essere svelata, vissuta o mutata in base a stati d’animo “ballerini”, preferisco la limpida certezza del tratto fermo e definito che non teme l’errore (e conseguentemente l’alone che ne scaturirà!) ma che dimostra coraggio, determinazione, fermezza d’intenti, senso di responsabilità. Dove c’è tutto questo, per me, c’è sentimento (Amicizia, Amore, Rispetto) verso l’altro. Dove non c’è, io ci vedo soltanto la “liquidità” di un acquarello … ovvero, come lo definiva Bauman, “un amore diviso tra il desiderio di emozione e la paura del legame”, cioè, in poche parole, una concezione immatura, superficiale e disimpegnata dei rapporti, dai quali è possibile fuggire quando non si è in grado di gestirne la naturale e fisiologica complessità.