C’è da chiedersi cosa rappresenti l’ispirazione per un artista.

Se sia un dono che arriva all’improvviso ad un fortunato genio prescelto oppure un percorso costruito con studio, dedizione, tanti tentativi e soprattutto errori, che culmina nella creazione di un’opera strettamente rispondente alla realtà che si intende riprodurre.

Se si opta per la prima interpretazione allora nulla quaestio sulla rappresentazione di un’opera che non appaia particolarmente rispondente ai canoni estetici, letterari, poetici e culturali dell’epoca interessata dalla creazione. Essa viene commissionata all’artista ed egli “crea” in base a quella che è la sua ispirazione del momento a prescindere da schemi e conoscenze che attengono al piano razionale.

Nel secondo caso, di contro, la realizzazione dell’opera è frutto di studio, ricerca, elaborazione dei dati raccolti, confronti e comparazioni con opere realizzate sul medesimo tema da altri artisti in epoche anche antecedenti e/o contemporanea.

È un’altra forma d’arte, semplicemente.

Una delle tante sfaccettature di un poliedrico modo di definire “la capacità di agire o di produrre, basata su un particolare complesso di regole e di esperienze conoscitive e tecniche” (cit. da www.treccani.it).

Si è discusso tanto ultimamente – anche troppo, a mio avviso – in merito alla statua bronzea della Spigolatrice che il 25 settembre scorso è stata inaugurata a Sapri, nel salernitano, e che porta la firma dello scultore cilentano Emanuele Stifano.

Se ne è discusso animatamente soprattutto tra coloro i quali hanno contestato all’artista un becero sessismo nelle rotondità delle forme che il medesimo ha osato attribuire alla donna, la quale dovrebbe raffigurare nient’altro che una contadina di fine Ottocento il cui ruolo era quello di raccogliere le spighe lasciate sui campi di grano dai mietitori.

Un mestiere semplice quello della spigolatrice, riservato alle fasce più povere della popolazione.

Alle donne, soprattutto, che nel 1857 – anno in cui fu scritto il poema in cui per la prima volta viene menzionata la spigolatrice famosa per essersi rivolta a Carlo Pisacane chiamandolo “Bel Capitano” – venivano considerate “trasgressive” per il solo fatto di andarsene da sole in giro per i campi; la qual cosa poteva determinare occasioni di incontri che, altrimenti, non sarebbero stati possibili nella società contadina del tempo.

Sono “letture” di un contesto passato e che non potrebbero trovare accoglimento nella realtà attuale.

Ecco perché sento lontane le polemiche sollevate intorno alla statua della Spigolatrice.

L’artista l’ha immaginata così, la “sua” Spigolatrice: piuttosto magra e con un abito aderente, probabilmente niente affatto rispondente a quello tipico portato della contadine dell’epoca; aderente al punto da non lasciare nulla all’immaginazione, almeno per quel che riguarda le rotondità del fondoschiena. Gli uomini avranno apprezzato. Almeno quelli che non tentano sempre – direi tra l’altro piuttosto maldestramente – di apparire politically correct nei confronti di quella frangia estrema del femminismo (assolutamente trasversale) che intravede “sessismo” ovunque.

Insomma, l’artista si è espresso in questo modo. La sua ispirazione ha dato forma e vita ad una “spigolatrice provocante”.

Che, per carità, può piacere o no, dal punto di vista estetico ed artistico. Può condividersi o meno il suo personalissimo modo di immaginare questa donna “ardita” (è lei stessa che nella poesia si definisce così!!) al punto tale dal prendere la mano ad uno sconosciuto e rivolgergli la parola intrisa di animo e sentimento.

Ma questo è quanto: e, per quel che mi riguarda, margini per dissertare in merito a quella che considero soltanto una sterile polemica in cui si vuole forzatamente intravedere del sessismo, francamente io – da sempre etichettata come “Donna di Sinistra e Femminista” – non ne rilevo.

“Eran trecento, eran giovani e forti,
e sono morti!’ ‘
Me ne andava al mattino a spigolare

quando ho visto una barca in mezzo al mare:
era una barca che andava a vapore,
e alzava una bandiera tricolore.
All’isola di Ponza si è fermata,
è stata un poco e poi si è ritornata;
s’è ritornata ed è venuta a terra;
sceser con l’armi, e a noi non fecer guerra.
Eran trecento, eran giovani e forti,
e sono morti!
Sceser con l’armi e a noi non fecer guerra,
ma s’inchinaron per baciar la terra.
Ad uno ad uno li guardai nel viso:
tutti aveano una lagrima e un sorriso.
Li disser ladri usciti dalle tane,
ma non portaron via nemmeno un pane;
e li sentii mandare un solo grido:
“Siam venuti a morir pel nostro lido”.
Eran trecento, eran giovani e forti,
e sono morti!
Con gli occhi azzurri e coi capelli d’oro
un giovin camminava innanzi a loro.
Mi feci ardita, e, presol per la mano,
gli chiesi: “Dove vai, bel capitano?”
Guardommi, e mi rispose: “O mia sorella,
Vado a morir per la mia patria bella”.
Io mi sentii tremare tutto il core,
né potei dirgli: “V’aiuti il Signore!”
Eran trecento, eran giovani e forti,
e sono morti!
Quel giorno mi scordai di spigolare,
e dietro a loro mi misi ad andare:
due volte si scontrâr con li gendarmi,
e l’una e l’altra li spogliâr dell’armi:
ma quando fûr della Certosa ai muri,
s’udirono a suonar trombe e tamburi;
e tra ’l fumo e gli spari e le scintille
piombaron loro addosso più di mille.
Eran trecento, eran giovani e forti,
e sono morti!
Eran trecento e non voller fuggire,
parean tre mila e vollero morire;
ma vollero morir col ferro in mano,
e avanti a loro correa sangue il piano:
fin che pugnar vid’io per lor pregai,
ma a un tratto venni men, né più guardai:
io non vedea più fra mezzo a loro
quegli occhi azzurri e quei capelli d’oro.
Eran trecento, eran giovani e forti,
e sono morti!”

Luigi Mercantini