L’art. 2 della Costituzione italiana menziona i “diritti inviolabili dell’uomo” ed i “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Quegli stessi diritti elencati dettagliatamente nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che l’Assemblea Generale dell’ONU approvava il 10 dicembre 1948.
Tra i diritti umani di cui si discute maggiormente negli ultimi anni c’è quello d’asilo, inteso come “istituto che consiste nella protezione accordata da uno Stato a individui che intendono sottrarsi nello Stato di origine a persecuzioni fondate su ragioni di razza, religione, nazionalità, di appartenenza a un particolare gruppo sociale o di opinioni politiche” (https://www.treccani.it/enciclopedia/diritto-di-asilo-diritto-internazionale).
Il terzo comma dell’10 della Costituzione italiana recita testualmente “Lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto di asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
La Convenzione di Ginevra del 1955, nota come Convenzione sui Rifugiati, introduce all’art. 33 il c.d. “principio di non respingimento” secondo cui “Nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche
La Carta dei Diritti fondamentali della Unione Europea del 2000 sancisce, poi che “Le espulsioni collettive sono vietate … Nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti” (Art. 19).
In realtà, il fenomeno migratorio – e il diritto d’asilo che ad esso è inscindibilmente legato – interessa negli ultimi anni l’Italia molto più di altri Paesi dell’area occidentale in quanto, con i suoi quasi ottomila chilometri di costa sul Mediterraneo, risulta costantemente esposta allo sbarco di uomini, donne e bambini provenienti dall’Africa centro settentrionale.
Nell’ultimo anno, peraltro, con un aumento esponenziale rispetto agli anni precedenti (56.618 migranti sbarcati nel periodo gennaio-novembre 2021 a fronte di 30.574 sbarcati nello stesso periodo del 2020 e di 9.944 relativi all’anno 2019), l’Italia ha dovuto affrontare, da sola, una emergenza senza precedenti in termini di organizzazione e gestione dell’accoglienza degli stranieri clandestini. Le richieste d’asilo sono state numerose in quanto, a norma dell’art. 13 del Trattato di Dublino (che sorge dalle ceneri della Convenzione di Dublino del 1990), esse vanno presentata allo Stato membro della Unione Europea nel quale per la prima volta si accede.
La norma de qua recita testualmente “Quando è accertato (…) che il richiedente ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un Paese terzo, la frontiera di uno Stato membro, lo Stato membro in questione è competente per l’esame della domanda di protezione internazionale».
D’altro canto, quando qualche anno fa l’Italia, governata dai partiti di Centro Destra – al fine di attirare l’attenzione dell’Unione Europea sul fenomeno migratorio e sensibilizzare gli enti preposti ad adottare soluzioni condivise – praticò la politica dei “porti chiusi”, molti dei nostri marittimi si trovarono in difficoltà dal punto di vista operativo, in quanto normative nazionali ed internazionali impongono precisi doveri di salvataggio, prevedendo anche sanzioni penali in caso di loro inosservanza.
La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (c.c. UNCLOS – United National Convention on the Law of the Sea), per esempio, stipulata a Montego Bay nel 1982, e recepita dall’Italia con legge n. 689 del 1994, sancisce che “ogni Stato contraente deve obbligare i comandanti delle navi che battono la propria bandiera nazionale a prestare assistenza ai naufraghi trovati in mare ovvero a portarsi immediatamente in soccorso di persone in pericolo quando si abbia notizia del loro bisogno di aiuto”.
La Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare (nota a tutti come SOLAS – Safety of Life at Sea), firmata a Londra nel 1974 e ratificata dall’Italia con legge n. 313 del 1980, prevede anch’essa norme che impongono il salvataggio in mare.
Infine, la Convenzione di Amburgo del 1979 (la c.d. SAR – Search and Rescue), resa esecutiva dall’Italia con legge n. 147 del 1989 ed alla quale si è data attuazione con il D.P.R. n. 662 del 1994, ha individuato nel Ministero dei Trasporti l’Autorità nazionale responsabile dell’esecuzione della Convenzione stessa e nel Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di porto che ha sede a Roma, l’organismo nazionale che deve assicurare il coordinamento dei servizi di soccorso marittimo ed i contatti con gli altri Stati (MRCC).
Dai suindicati trattati internazionali emerge, quindi, un vero e proprio obbligo di salvataggio in mare della vita umana che, derivante da una consuetudine marittima risalente nel tempo, riguarda sia i comandanti delle navi sia gli stessi Stati contraenti. Peraltro, nell’obbligo anzidetto rientra sia il salvataggio tout court, sia l’individuazione di un porto sicuro (c.d. POS – “Place of Safety”) dove sbarcare le persone recuperate in mare ed in pericolo di vita.
Dovrà essere garantito, quindi, che:
1) la sicurezza e la vita dei naufraghi non sia più in pericolo;
2) le loro necessità primarie (cibo, alloggio e cure mediche) siano soddisfatte;
3) possa essere organizzato il trasporto dei medesimi verso una destinazione finale.
Solo dal momento dell’arrivo dei naufraghi in tale luogo sicuro cessano gli obblighi che il diritto internazionale pone in capo allo Stato che ha prestato il salvataggio in mare. Più specificamente, sia la Convenzione UNCLOS (art. 98.1) che la Convenzione SOLAS (Cap. reg. 33), stabiliscono che il Comandante di una nave ha l’obbligo di prestare soccorso a chiunque sia trovato in mare in pericolo di vita ed è, altresì, tenuto a procedere con tutta rapidità all’assistenza di persone in pericolo in mare, di cui abbia avuto informazione.
Inoltre l’art. 98.2 della UNCLOS prevede l’obbligo, per gli Stati, di istituire e mantenere un adeguato ed effettivo servizio di ricerca e soccorso, relativo alla sicurezza in mare e, ove necessario, di sviluppare, in tale ambito, una cooperazione attraverso accordi regionali con gli Stati limitrofi, ponendo le basi per l’esecuzione di accordi multilaterali
Ma è soprattutto la Convenzione SAR, stipulata allo scopo di coordinare i soccorsi che prima degli anni Ottanta erano lasciati alla libera iniziativa di ciascun paese, che stabilisce gli obblighi, le procedure e le modalità organizzative che gli Stati contraenti devono seguire per assicurare la ricerca e il soccorso in mare di persone in pericolo.
In particolare, al punto 2.1.9. si dispone che, nel caso in cui le Parti contraenti vengano informate che “una persona è in pericolo in mare, in una zona in cui una parte contraente assicura il coordinamento generale delle operazioni di ricerca e di salvataggio, le autorità responsabili di detta parte adottano immediatamente le misure necessarie per fornire tutta l’assistenza possibile”.
Come già accennato, la Convenzione de qua impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare ed anche il dovere di sbarcare i naufraghi in un luogo sicuro: in tale ottica, proprio per far fronte ai problemi legati all’ottenimento del consenso di uno Stato allo sbarco delle persone tratte in salvo, gli Stati membri dell’IMO (International Maritime Organization) hanno adottato emendamenti alle predette Convenzioni SOLAS e SAR, in base ai quali gli Stati contraenti devono coordinarsi e cooperare nelle operazioni di soccorso e prendersi in carico i naufraghi, individuando e fornendo al più presto, la disponibilità di un luogo di sicurezza (POS), inteso come luogo in cui le operazioni di soccorso si intendono concluse e la sicurezza dei sopravvissuti garantita.
Le c.d. “Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare”, adottate nel 2004 dal Comitato Marittimo per la Sicurezza dell’IMO ai fini della corretta attuazione degli emendamenti suindicati, precisano quindi che:
1) in ogni caso il primo centro di soccorso marittimo (MRCC – Maritime Rescue and Coordination Centre) che venga a conoscenza di un caso di pericolo, anche se l’evento interessa l’area SAR di un altro Paese, deve adottare i primi atti necessari a garantire la salvezza delle vite in mare e continuare a coordinare i soccorsi fino a che l’autorità responsabile per quell’area non ne assuma il coordinamento;
2) lo Stato cui appartiene l’MRCC  che per primo abbia ricevuto la notizia dell’evento, o che comunque abbia assunto il coordinamento delle operazioni di soccorso, ha l’obbligo di individuare sul proprio territorio un luogo sicuro ove sbarcare le persone soccorse, qualora non vi sia la possibilità di raggiungere un accordo con uno Stato il cui territorio fosse eventualmente più prossimo alla zona dell’evento. Ciò indipendentemente da qualsiasi considerazione in merito al loro status.
Ne consegue che, sullo Stato che coordina le operazioni SAR, pur non insistendo un immediato obbligo di accoglienza delle navi nei propri porti, ricade la responsabilità della individuazione di un luogo di sbarco sicuro, raggiungibile, quindi, senza porre in pericolo le persone a bordo della nave.
È però altrettanto pacifico che tale “luogo”, qualora venga individuato in un porto di altro Stato, non può non scontare, in via preliminare, il consenso di quello Stato. Il che determina spesso diatribe infinite che sono alla base del malcontento della gestione dei flussi migratori da parte della Unione Europea (pensiamo all’infinito rimpallo di responsabilità tra Roma, La Valletta e Tripoli).
Ma l’obbligo di salvataggio in mare non deriva soltanto da Convenzioni internazionali. Anche il Codice della Navigazione, principale fonte interna del diritto della navigazione, impone una serie di interventi. L’art. 69 CdN stabilisce, ad esempio, che “l’autorità marittima, che abbia notizia di una nave in pericolo ovvero di un naufragio o di altro sinistro, deve immediatamente provvedere al soccorso e, quando non abbia a disposizione né possa procurarsi i mezzi necessari, deve darne avviso alle altre autorità che possano utilmente intervenire“.
L’articolo 1113 CdN punisce, inoltre, per omissione di soccorso “chiunque, nelle condizioni previste negli articoli 70, 107, 726, richiesto dall’autorità competente, omette di cooperare con i mezzi dei quali dispone al soccorso di una nave, di un galleggiante, di un aeromobile o di una persona in pericolo ovvero all’estinzione di un incendio, è punito con la reclusione da uno a tre anni
L’articolo 1158 CdN punisce, infine, per omissione di assistenza a navi o persone in pericolo “il comandante di nave, di galleggiante o di aeromobile nazionali o stranieri, che omette di prestare assistenza ovvero di tentare il salvataggio nei casi in cui ne ha l’obbligo a norma del presente codice“.
Ecco spiegata la difficoltà dei nostri marittimi durante il primo Governo Conte, allorquando l’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini pontificava sulla chiusura dei porti. Ed ecco spiegato perché, ancora oggi, è in corso un giudizio che lo vede coinvolto come imputato per aver impedito nel 2019 lo sbarco nel porto di Lampedusa di 147 migranti che si trovavano sulla imbarcazione umanitaria  “Open Arms”.
E non è soltanto questione di diritto marittimo.
Laddove le persone soccorse in mare, oltre che “naufraghi” si qualifichino, in termini di status, anche come “migranti/rifugiati/richiedenti asilo” – soggetti, quindi, alle garanzie ed alle procedure di protezione internazionale – l’accezione del termine “sicuro” (riferita al luogo di sbarco) si connota anche di altri requisiti, legati alla necessità di non violare i diritti fondamentali delle persone (sanciti, come abbiamo visto, dalla Costituzione italiana e dalle norme internazionali sui diritti umani come la Convenzione Internazionale Diritti Umani, la Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status di rifugiati, la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, etc.) impedendo che avvengano “sbarchi” in luoghi “non sicuri”, che si tradurrebbero in aperte violazioni del “principio di non respingimento”, del divieto di “espulsioni collettive” e, più in generale, di espulsioni pregiudizievoli dei diritti di “protezione internazionale” accordati ai rifugiati (in fatto e/o diritto) e ai richiedenti asilo.