Uomini Comuni” è il titolo di un libro scritto da Christopher R. Browing che venne pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1992 con il titolo “Ordinary Man”.
Il testo venne poi ripubblicato nel 1998 con una postfazione dell’autore che riassumeva le sue posizioni riguardo le tesi esposte da Daniel Goldhagen nel suo libro “I volenterosi carnefici di Hitler” pubblicato nel 1996.
Io ho letto recentemente la nuova edizione ampliata di quello che ritengo essere uno dei libri più indispensabili mai scritti sulla Shoah. Un testo in cui l’autore tenta di dare una spiegazione, sorprendente ed angosciante al tempo stesso, al comportamento assunto dagli uomini che componevano il “Battaglione 101” della Riserva di Polizia tedesca che il 3 luglio 1942 entrò nel villaggio polacco di Jozefow e portò a termine lo sterminio di 1500 ebrei, uomini donne e bambini, in un solo giorno.
Comportamento che l’autore desume da testimonianze rese nei processi post bellici in cui risultarono imputati numerosi ufficiali nazisti e dalla copiosa documentazione raccolta in merito.
La domanda che pervade ogni singola pagina del testo è: un uomo comune può diventare uno spietato assassino per puro spirito di emulazione e desiderio di carriera?
Fondamentalmente si.
Il testo, peraltro, partendo da un episodio realmente accaduto (il massacro di Josefow, appunto), accuratamente ricostruito e dettagliatamente descritto, richiama due esperimenti condotti, rispettivamente, da Stanley Milgram e Philip Zimbardo che consiglio vivamente di approfondire. Il primo, infatti, fu un esperimento di psicologia sociale condotto nel 1961 che aveva come obiettivo lo studio del comportamento di soggetti ai quali un’autorità, nel caso di specie uno scienziato, ordinava di eseguire delle azioni in conflitto con i valori etici e morali dei soggetti stessi. Il secondo invece, noto anche come “esperimento della prigione di Stanford”, condotto nel 1971, ebbe come scopo quello di indagare il comportamento umano in una società in cui gli individui sono definiti soltanto dal gruppo di appartenenza.
Il libro di Browning è ricco di particolari sulla organizzazione della polizia tedesca durante il Terzo Reich. Nel settembre del 1939, quando la Germania invase la Polonia, il “Battaglione 101”, di base ad Amburgo, fu uno dei primi ad essere inviato in quei luoghi al fine di “ricolonizzarli” secondo l’assurdo programma demografico di Hitler e di Himmler. Successivamente, quando si decise per la deportazione degli ebrei nei campi di concentramento che prendevano vita (la costruzione dei campi iniziò nell’autunno 1941), si pose il problema di recuperare la manodopera necessaria per evacuare i ghetti, ossia per radunare le vittime e caricarle sui treni della morte. Ed allora, quella imponente impresa logistica, necessitò di un dispiego di forze militari senza precedenti. Ed impose, finanche, talvolta, dinanzi alla difficoltà di deportare tutte le vittime nei campi di sterminio, una ulteriore possibilità: ucciderle in massa tramite l’impiego di plotoni di esecuzione. Il “Battaglione 101” fu l’unità prescelta per l’esperimento, Non tutti parteciparono all’eccidio. Una dozzina di uomini su cinquecento dichiararono di non essere disposti ad uccidere donne e bambini e fecero un passo avanti quando venne loro proposto di non partecipare all’eccidio. Non vennero puniti per questa loro scelta. Del resto Himmler, nel famoso discorso ai capi delle SS, tenuto a Poznan nel 1943, pur esaltando l’obbedienza come una delle virtù fondamentali per tutti gli uomini delle SS, aveva ammesso una certa tolleranza verso “uno che ha i nervi a pezzi, uno che è debole. Allora gli si può dire: vai pure in pensione“.
A parte questi pochissimi dissenzienti – che io definirei coraggiosi piuttosto che deboli – tutti gli altri uomini del “Battaglione 101” si dimostrarono capaci di gesti e comportamenti aberranti, frutto dell’indottrinamento (in quegli anni erano state emanate istruzioni sui contenuti e sulla frequenza di una “formazione permanente” incardinata sulla visione nazionalsocialista del mondo) e della loro formazione militare (altri materiali di indottrinamento riguardavano specificamente la formazione ideologica della polizia tedesca) ma anche delle circostanze in cui si trovarono ad operare (la polarizzazione indotta dalla guerra: da una parte i tedeschi, dall’altra gli ebrei) e del loro far parte di un “gruppo” (la conformità gioca un ruolo fondamentale al fine di mitigare la responsabilità personale). Il testo è interessante. La prima parte è documentale, la seconda esplicativa. Alle tante domande che ci si pone dinanzi al massacro di Jozefow come dinanzi ai tanti massacri che la Storia costantemente ci propone spesso non si riesce a fornire una risposta. O, piuttosto, le risposte sono tante, confuse, vaghe, ipotetiche.
Il comportamento di ogni essere umano è, ovviamente, un fenomeno molto complesso e lo storico che cerca di “spiegarlo” indulge a una certa presunzione. Possiamo soltanto auspicare che nel corso delle inevitabili circostanze drammatiche che la Vita ci propone, esista sempre quell’individuo definito da Zygmunt Bauman come chi è “capace di resistere all’autorità e di affermare la propria autonomia morale … in genere egli non è consapevole di questa sua forza nascosta finchè non è messo alla prova“. Questo, forse, ci salverà.