Da giorni l’attenzione dei media è focalizzata sulle denunce che arrivano a raffica da parte di ex ginnaste azzurre sui metodi utilizzati dalla dirigenza per monitorare il peso delle atlete.
Metodi che hanno generato in molte di loro veri e propri disturbi dell’alimentazione e, conseguentemente, gravi patologie che hanno necessitato di cure specifiche e, spesso, anche di un distacco netto dal mondo di cui facevano parte. L’attenzione per il peso e per l’aspetto estetico è sempre stato per le ragazze che praticano certe discipline artistiche e/o sportive – danza classica, ginnastica ritmica e artistica, pattinaggio, nuoto sincronizzato – una costante nel tempo. Ricordo che anche io da ragazzina ebbi un sussulto al momento del passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Sussulto che divenne dramma non appena notai che quel corpicino sottile, minuto e androgino che mi aveva caratterizzato fino agli undici/dodici anni iniziava a prendere forme che non erano previste tra i canoni estetici della danza classica. Ero magra ma sarebbe stato necessario in futuro intervenire chirurgicamente per ridurre il seno, cresciuto troppo velocemente ed abbondantemente in quella fase dell’età; divenuto, oltre che ingombrante, anche esteticamente inadeguato, soprattutto al fine di indossare l’abbigliamento da sala ed i costumi di scena appositamente creati per un certo genere di fisico e, in particolare, per donne dal torace piatto e androgino.
L’adolescenza è un periodo brutto, si sa. Ricordo la mia come traumatica soprattutto a causa della trasformazione del mio corpo da bambina a donna. Volevo essere filiforme e magra, ossuta e scheletrica come i canoni della disciplina che avevo scelto – e che rappresentava una delle mie ragioni di vita – mi imponevano.
Non faccio fatica a comprendere lo stato d’animo che deve aver pervaso tante ginnaste, danzatrici, atlete dinanzi alle trasformazioni del proprio corpo e dinanzi alle pressioni, interne ed esterne, che tali trasformazioni determinavano.
Il controllo, da parte di allenatori e personale dello staff dirigenziale, del loro peso, dell’altezza, delle misure del loro corpo in fioritura; le diete alimentari spesso non equilibrate che si chiedeva loro di osservare; l’uso massiccio di lassativi per ridurre il gonfiore; l’amenorrea come stato di vita permanente.
È chiaro che alcune di loro non hanno resistito e che l’alternativa a tutto questo sia apparso l’abbandono della disciplina. L’abbandono della disciplina. Già. L’abbandono della disciplina. Per vivere a quindici anni una vita normale. Sapete a quindici anni io cosa facevo, in attesa di un intervento di mastoplastica riduttiva per cui all’epoca si doveva attendere il compimento dei diciotto anni? Piangevo. Piangevo. Piangevo. Desiderando di essere “piatta” come una tavola da surf. E l’unica alternativa a quello stato di frustrazione mi apparve fasciarmi il seno perché non si notasse; con fasce alte venti centimetri che acquistavo in farmacia. Mortificavo il mio corpo, le mie forme, la mia femminilità. La mummificazione mi dava soddisfazione proprio perchè apparivo il giunco che non ero. Ma una precisazione è d’obbligo. Nessuno dei miei maestri di danza dell’epoca mi costringeva a simili pratiche. Non ho mai assistito personalmente ad attività di verifica del peso o dell’altezza di mie coetanee. Ma c’è anche da dire che non ce ne era bisogno. Aleggiava su tutte noi piccole ballerine quel senso di inadeguatezza agli standard che la danza classica imponeva. Ma io frequentavo una piccola scuola privata di provincia. Tutto sommato pagavamo per quelle lezioni, pagavamo per inseguire un sogno. Il nostro sogno fatto di tutù e scarpette rosa.
Diverso è il discorso per le giovanissime atlete che competono a livello nazionale e/o internazionale spesso con i colori dell’Italia e/o con quelli di società private che investono tanti soldi nelle competizioni di livello. Loro semmai vengono pagate. E le selezioni per accedervi sono spesso durissime.
Leggo oggi sul Corriere della Sera l’intervista ad Ilaria Barsacchi, giovane promessa della ginnastica ritmica italiana. Le sue parole sono macigni:
– “Ero 38 chili, dicevano: troppi. Così ho lasciato la ginnastica”.
– “Speravo che le prime mestruazioni non mi arrivassero mai. Vissi male il primo ciclo e la crescita del seno. Il mio corpo stava cambiando, ma non lo accettavo. E il giudizio mi faceva male».
– “Non ero più felice di fare qualcosa che avevo amato fino ad allora. Dal quel giorno, non ho voluto saperne più nulla. Non ho allenato, non ho guardato più gare, niente. È un capitolo chiuso».
Ora, non deve passare inosservato il fatto che, con una decisione senza precedenti per lo sport italiano, il presidente della Federginnastica ha commissariato ieri l’Accademia di ginnastica ritmica di Desio dopo le ripetute denunce di vessazioni da parte di ex atlete. Perchè ciò significa che anche in Italia, finalmente, si è preso atto della gravità della situazione, dopo che contro la pesatura in pubblico di atlete, per di più giovanissime e in fase puberale, già si esprimono le linee guida di molte organizzazioni internazionali della sanità, preoccupate dei gravi rischi psicologici che la pratica di alcune discipline artistiche e sportive comporta. Da donna, da madre di un’adolescente che studia danza e che si scruta allo specchio sempre con sguardo critico e severo, da ex ballerina classica, mi auguro soltanto che queste recenti rivelazioni, che scoperchiano pratiche antiche sempre taciute, costituiscano soltanto il primo atto di un percorso, normativo ma soprattutto culturale, caratterizzato dalla presa di coscienza che uno sport, in generale, non può e non deve costituire per un qualsiasi adolescente una problematica esistenziale dagli esiti anche talvolta fatali.